Quello fra scienza e letteratura è da sempre un binomio perfetto. Ne sapeva qualcosa Primo Levi, che ha usato il suo mestiere di chimico ne “Il sistema periodico”(1975) per raccontare la vita in ogni sua sfumatura. Il «poeta ingegnere» Leonardo Sinisgalli, invece, coniugava perfettamente la sua formazione scientifica con la cultura umanistica per creare nuovi mondi possibili attraverso il linguaggio.
Fra questi autori si può inserire tranquillamente Veronica Galletta, ingegnera e scrittrice che l’anno scorso si è aggiudicata il Premio Campiello Opera Prima con “Le isole di Norman” (Italo Svevo Edizioni).
Lo scorso ottobre, però, è tornata in libreria per i tipi di minimum fax con “Nina sull’argine”, un romanzo in corsa per il Premio Strega 2022, che prende spunto dalla sua formazione per raccontare il mondo del lavoro, una realtà in cui spesso bisogna fare compromessi mettendo da parte i propri ideali.
Nina sull’argine
Date queste premesse, Nina sull’argine si costruisce come un lungo viaggio d’introspezione e crescita che trova nell’immagine del cantiere in fieri una sorta di correlativo oggettivo.
Caterina prende le misure, costruisce l’argine, progetta sistemazioni e calcola distanze; a volte sbaglia, e allora deve ricominciare da capo: deve ri- costruire, riconsiderare i dati, aggiustando le formule fino a farle combaciare con la realtà, con le sfumature del mondo in cui è immersa.
È un lavoro pieno di intoppi, soddisfacente quanto più è stato frustrante il percorso, lo sforzo, la pazienza di saper mettere insieme ogni cosa con cura. E questo lavoro combacia, perfettamente, con quello che deve fare su se stessa, giorno per giorno, combattendo con le nausee e le insicurezze, con la paura di non essere all’altezza, di essere esattamente come tutti credono: impreparata e inaffidabile.
Parallelamente a questo filo della narrazione se ne sviluppa un altro, che ogni tanto fa capolino tra le pagine e si imprime nella memoria per un carattere diverso, un tono più anziano e malinconico, come quello di chi ricorda qualcosa che è ormai diventato inafferrabile. Nina sull’argine è, infatti, un libro di fantasmi, nel senso metaforico del termine.
È un romanzo sul passato e sulle cose che bisogna lasciare andare. Sui segreti che ci portiamo dietro e sull’amore che non finisce, neanche dopo anni, ma si tramuta in una solitudine ostinata e discosta, impenetrabile agli altri. Come ne “Le isole di Norman”, il microcosmo a cui dà vita Veronica Galletta vibra e respira: prende forma dai drammi privati che si intuiscono dietro uno sguardo sfuggente, come quello di Bernini, o dalle rivendicazioni cieche di Musso, che come un moderno Don Chisciotte si ostina in un’inutile lotta ai mulini a vento.
I personaggi
È per questo, forse, che ci si affeziona facilmente ai personaggi di questo romanzo. Si intuisce una vicinanza, un’appartenenza comune: quella vulnerabilità che anche noi abbiamo imparato a soffocare. Nina intraprende un percorso in cui prova quello che Christa Wolf definì nelle “Premesse a Cassandra”«dolore di farsi soggetto».
La protagonista riesce a emanciparsi dai suoi fantasmi, a «governare il movimento», ma il prezzo da pagare è doloroso. «Il segreto per fare le cose dolorose», pensa, «è farle come se riguardino la vita di qualcun altro», perché «andare avanti significa sempre un po’ tradire. Qualcuno, qualcosa, sé stessi».
Questa è la spina dorsale della storia, che si realizza nel continuo confronto fra l’evoluzione dello stato dei lavori nel cantiere dell’argine e la lenta ricostruzione della vita, non solo sentimentale, di Caterina. Lei che ha la responsabilità di costruire un argine contro le piene distruttive, avrebbe bisogno di un argine emotivo che la proteggesse contro le intemperie della vita.
Nina sull’argine è un romanzo che ci porta a pensare a ciò che ci rende umani: gli errori, i cambiamenti repentini, le scelte, i ricordi, ma soprattutto le ripartenze. Nina impara a camminare da sola. E insegna che il mondo è bello anche se lo percorriamo solo sulle nostre gambe. Veronica Galletta tratteggia i personaggi sul cantiere come fossero tipi e individui al contempo.
Vi troviamo l’assessore innamorato del paesello e della cucina locale. Il poeta che protesta in difesa dei pesci ma non comprende il pericolo che corre il paese. La vedova che non accetta l’esproprio della terra, ma fa il caffè all’ingegnere per scambiare due parole. Il geometra Bernini, gran lavoratore ma maschilista per inerzia e refrattario agli ordini.
Il cantiere stesso è un personaggio. Proteiforme e gigantesco. Umorale. Assomiglia a un organismo capace di reagire a ogni intoppo con piccoli assestamenti, compensazioni naturali e aggiustamenti per mano dell’uomo. Il romanzo si suddivide in 30 brevi capitoli e 4 intermezzi in corsivo intitolati “Novembre”.
La narrazione
La narrazione è in terza persona con focalizzazione fissa sul personaggio di Nina, ad esclusione degli intermezzi. Della protagonista conosciamo pensieri e stati d’animo, la vivace interiorità e lo sguardo, ora critico, ora pietoso che si sposta su uomini e cose. I rapporti con gli altri personaggi sono scanditi da secchi, serrati dialoghi. Lo scambio di battute permette di individuare immediatamente l’indole degli attori in campo, anche fuori dal filtro della protagonista.
La scrittura di Veronica Galletta in questo romanzo non rassicura e non consola, è piena di spigoli. La punteggiatura frequente, le frasi brevi, l’insistenza della virgola che fruga e spezzetta riempie di pause la lettura, di singhiozzi. Così nella perizia tecnica, nel linguaggio delle macchine e dell’idraulica si sente sempre una vibrazione. Le descrizioni abbondanti sono solo apparentemente denotative, di fatto le cose assumono grandezza e sofferenza alla pari dei personaggi. La costruzione dell’argine diventa teodicea del lavoro, epica del quotidiano, impresa terribile e dolorosa.
Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Da ingegnere ha lavorato quasi vent’anni per un ente pubblico. Con il romanzo “Le isole di Norman” (Italo Svevo Edizioni 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima.
di Anna Maria Laurano