C’è un genere di film molto particolare, chiamato film drammatico. È un genere che si basa sullo sviluppo dei personaggi, sull’interazione tra essi e tratta temi di impatto emotivo. Maggiore è l’identificazione con il personaggio, più l’impatto emotivo è ben riuscito. E se un film drammatico è ben riuscito, la visione di esso non ti rassicura, anzi ti fa male: un male che ti porterà a riflettere. Ci riesce bene il film “Tirannosauro” di Paddy Considine, vincitore di numerose competizioni, tra cui ben tre BAFTA (miglior film inglese indipendente, miglior regista esordiente, miglior attrice) e il Directing Award al Sundance.
La trama di Tirannosuaro
La storia gira intorno al personaggio di Joseph. Egli è un sessantenne vedovo, alcolizzato, aggressivo che passa le sue giornate tra un boccale di birra e una rissa. La perdita della donna amata gli ha procurato un dolore tale che lo spinge a far male anche a chi ama. Un giorno, reduce da un ennesimo scontro, cerca asilo nel negozio di Hannah, una devota cristiana che non può fare altro che dirgli che pregherà per lui. Joseph è disperatamente ateo ma le parole di Hannah lo toccano e lo spingono a tornare a cercarla. Pur non riuscendo a trattenersi dall’offenderla capisce che anche lei nasconde un dolore profondo. Da quel momento tra loro nasce un legame che li porta a incontrarsi ancora e a intrecciare le loro esistenze che hanno in comune soprattutto la violenza. Lei continua a subirla, lui ad autodistruggersi. Riusciranno insieme a uscirne?
Le riflessioni in Tirannosauro
Paddy Considine, attore britannico che ha lavorato con registi del calibro di Jim Sheridan e Ron Howard affronta la sua prima regia. Riesce con grande sensibilità ad inserirsi in quel filone di cinema inglese che affronta la brutalità della vita con forti accenti di verità. “Tirannosauro” quindi, narra la storia di queste due anime tormentate, in cerca di redenzione. Indagando a fondo nei loro caratteri, porta lo spettatore a provare una grande empatia per le solitudini dei personaggi. Joseph, Hannah e suo marito James provengono da classi socioculturali diverse ma tutti e tre si ritrovano a combattere contro la violenza. Eppure non è negata la possibilità di riscatto. C’è solo la consapevolezza di quanto sia difficile combattere una guerra quando il nemico si presenta ogni giorno guardandosi allo specchio.
Una grande prova attoriale
Immense le prestazioni degli interpreti: Peter Mullan con quel suo spigoloso accento scozzese è un protagonista rude, disperato e ipnotico. Lui già migliore attore a Cannes nel 1998 per “My Name Is Joe” di Loach. Poi c’è Eddie Marsan: un disgustoso marito finto, feroce e inspiegabilmente disturbato, Ma è Olivia Colman la vera sorpresa del film. La sequenza in cui il suo personaggio alterna lacrime e sorrisi poco prima di ritrovarsi in un inferno domestico è un vero pugno allo stomaco. Non consiglio il film a tutti perché è emotivamente molto crudo, però mi ha spinto davvero a riflettere. Ognuno di noi dà il proprio senso alla vita, senso che potrà essere valido solo se siamo sinceri con noi stessi ed amiamo. Amare noi stessi per riuscire ad amare anche gli altri.
di Ilaria Bruni