Ad Asiago, la città in cui nacque il primo novembre 1921, si ricorderà il centenario della nascita di Rigoni Stern con il convegno internazionale ”Mario Rigoni Stern e il suo Altipiano, cento anni di etica civile, letteratura, storia e natura”. Verrà ricordata la poliedricità del personaggio, il suo impegno nel dar voce ai combattenti di guerra e l’amore per la sua terra. Un altro modo forse più comune e certamente accessibile a tutti è quello di amare i suoi libri.
Quella tra l’autunno e l’inverno poi, è la stagione migliore per rileggere uno dei suoi libri più famosi: “Il bosco degli urogalli”, il secondo libro di Rigoni Stern, composto nel 1962, raccogliendo alcuni racconti, dopo il suo capolavoro: “Il sergente nella neve”.
Il bosco degli uragalli
In questo libro, che è una raccolta di racconti, c’è tutto: la caccia, la bellezza della natura, l’amicizia, la guerra, i ricordi. Soprattutto, sempre, la montagna. C’è il senso di un andamento ciclico ed eterno, con un inizio, insperabilmente nuovo, e con una fine, anch’essa nuova, perché destinata comunque a riprodursi.
Ci sono immagini che si potrebbero ripetere, quasi mimare, in continuazione e con compiacimento, davanti al fuoco, o dopo una passeggiata sulla neve (“La vigilia della caccia; Oltre i prati, tra la neve; Dentro il bosco”). Ci sono frasi e parole genuine, pulite, così come lo sono le storie che vengono narrate, ci parlino di incontri improvvisi e sorprendenti (“Incontro in Polonia”) o ci dicano di due cani (“Alba e Franco”) o ci insegnino, letteralmente, “sentimenti” ed “esperienze” reali ma assoluti (“Una lettera dall’Australia; Vecchia America; A caccia con l’Australiano”).
La grammatica della pulizia
Sembrerà un’associazione di idee completamente strana, ma questa pulizia fa pensare alla stessa che Peter O’ Toole, nei panni di Lawrence d’Arabia, attribuisce al deserto, nel bellissimo e lunghissimo film di David Lean. In questa prospettiva, probabilmente, il racconto “Esame di concorso” non è un corpo estraneo. Rappresenta la testimonianza, un po’ desolata, di una frattura, della distanza che purtroppo esiste tra la pulizia delle cose e le cose della vita pubblica. Per certi versi, quindi, “Il bosco degli urogalli ”ci offre la grammatica di una pulizia “estrema”, tanto essenziale quanto diretta e primigenia. Ci indica la necessità di non accontentarci delle sole soddisfazioni dell’intelligenza e della fantasia, ma di riconoscere, nella perizia dei gesti più antichi e delle azioni più tradizionali, innate regole di equilibrio (“Le volpi sotto le stelle”).
La guerra e la caccia
Come gli aborigeni, anche noi abbiamo le “vie dei canti”: ma non dobbiamo pensare di dover leggere Chatwin e di immaginarle; ci basta leggere Rigoni Stern. Le due grandi tematiche dell’opera sono quelle della guerra e della caccia. Frequentemente si intrecciano e si sovrappongono in un sublime gioco di acute immagini metaforiche. La guerra, presenza ingombrante e dolorosa, in questi racconti viene descritta sia attraverso gli effetti traumatici che lascia nell’animo umano, sia attraverso la descrizione della distruzione fisica di ambienti naturali e zone civilizzate.
Una lettera dall’Australia
Un passo che può essere portato come esempio si colloca nella parte finale del racconto “Una lettera dall’Australia”. Il protagonista, assalito dalla febbre durante una battuta di caccia, rivive alcuni ricordi di quando era soldato attraverso un incubo/allucinazione. “Svaniva tutto in quel bagliore rovente, anzi quel bagliore si gelava e diventava tutto bianco e turbinoso e udiva uno sparo, due spari, una raffica. Membra di marmo sulla neve e ghiaccio rosso, e subito tutto si copriva nel turbine bianco”.
Altri passi interessanti si trovano nel racconto “Vecchia America”, dove due fratelli emigrati negli Stati Uniti fanno ritorno al loro paese d’origine in Italia e notano che “ i grossi abeti non c’erano più, erano stati portati via dalla guerra”.
La devastazione, dunque, non risparmia niente e nessuno, è come una terribile forza capace d’inghiottire uomini, animali, piante. Una forza che, però, può essere smorzata dalla solidarietà del prossimo, da valori tradizionali come quelli degli affetti familiari e del lavoro semplice ed onesto, oppure dal rapporto con la natura.
La dimensione naturale
Se la guerra è la negazione dell’uomo, in quanto irrazionale manifestazione di violenza, nelle pagine in cui Rigoni affronta il tema bellico l’animale rappresenta un’ ancora di salvezza, un argine alla marea di disumanità, un costante contatto con l’esistenza autentica, non degradata da retoriche guerresche e azioni finalizzate alla morte dell’altro.
L’animale diviene quindi, nella narrativa a tema bellico, il richiamo alla vita autentica, non corrotta dalla violenza. È il lato della dimensione naturale, parte integrante dell’essenza umana, che rimane in ombra ma non scompare a causa del conflitto, e al cui contatto l’uomo risveglia la sua vera, solidale e autentica realtà. Per questo l’animale assume anche un ruolo non secondario nel difficile ritorno alla vita quotidiana dei reduci, degli ex prigionieri del Lager o dei partigiani.
Alba e Franco
Emblematico è il caso dei due cani Alba e Franco, protagonisti dell’omonimo racconto, uno dei più belli dello scrittore veneto per la compresenza felice tra semplicità della fabula e la profondità di contenuto. La storia raccontata è di estrema quotidianità: tre fratelli, ex partigiani, dopo la Liberazione riprendono la vita da taglialegna, che prima del conflitto comprendeva anche la caccia nei boschi, ora resa impossibile in quanto i tedeschi avevano ucciso i cani da caccia della famiglia.
Per riprendere l’attività venatoria dunque vi è la necessità di trovare altri segugi: la scelta cade su una cucciola dalle “gambe gracili e tremanti, il corpo smilzo e poco sviluppato”, ma dagli “occhi vivi e intelligenti”. Assai significativo il nome scelto: “La chiamarono Alba a speranza di giorni nuovi dopo tanti anni neri”.
Ad Alba il più giovane dei tre fratelli affianca un cane dal “corpo massiccio e poco slanciato, le orecchie troppo piccole”, con gli occhi che “parevano tonti” ma che nell’insieme dava l’idea di “un animale robusto e sano”. L’impressione di quest’ultimo non è positiva sulla famiglia: ”il vecchio padre, seduto nell’orto a fumar la pipa sotto il ciliegio, sbruffò forte il fumo e brontolò tra i denti:‒ Che razza di bestia ci porti? ‒ Disse ‘bestia’, e non cane e non animale. ”La notazione lessicale di Rigoni è significativa: vi è una sorta di scala di valori espressa dalle parole, dove “bestia” è il gradino infimo, mentre “cane”, il nome della specie, è il livello più alto.
Ma presto il cane dimostra doti non comuni di astuzia, tanto che “quella sera deliberarono di chiamarlo Franco perché dimostrava d’esser furbo, libero e sfacciato” Alba e Franco: il primo nome foriero di speranza e il secondo segno di una virtù, la franchezza, che rimane parte integrante del mos maiorum dell’Altopiano.
La costruzione del tessuto biografico
Grazie ai due animali i fratelli possono riprendere l’antica passione, segnando in questo modo il loro pieno ritorno alla vita pacifica e comunitaria dopo la frattura della guerra: se il conflitto aveva ucciso sia gli uomini sia gli animali (i segugi della famiglia), la nuova integra costituzione del mondo umano è manifestata dal ritorno alle occupazioni e agli svaghi del passato. Non a caso Alba e Franco accompagnano anche i tre fratelli quando questi, con la neve, tornano a calzare gli sci, con gare e allenamenti condotti nei pressi della casa: “Quando passavano vicino Alba e Franco correvano loro incontro, li seguivano per la pista e abbaiavano come per incitarli a correre più forte e a vincere”.
L’animale diviene così il necessario ausilio per ricostruire un tessuto biografico lacerato dal conflitto, per rinsaldare la memoria con il patrimonio antico della comunità e per non perdere la custodia dei valori umani, semplici e ancestrali. Può forse apparire contraddittorio che un appassionato custode del mondo naturale come Mario Rigoni Stern sia stato cacciatore e che all’attività venatoria abbia dedicato alcuni tra i suoi racconti più belli, come quelli racchiusi ne “Il bosco degli urogalli”.
Il legame tra natura e caccia
Nel corso degli anni lo scrittore fu chiamato più volte a rispondere circa il legame tra natura e caccia, che egli intendeva come un mezzo necessario per mantenere l’equilibrio ambientale. Per lo scrittore “Cacciare è operare per l’equilibrio e scegliere con cura, e non interrompere un’armonia, raccogliere i capi che sono in sovrappiù e che disturbano l’ambiente, il rapporto tra maschi e femmine, e con il territorio. Per questo il vero cacciatore è un profondo conoscitore del bosco, che deve essere rispettato e salvaguardato”; sempre per questo, Rigoni critica il cacciatore cittadino che ha un rapporto consumistico con gli abitanti della foresta alpina.
Ma vi è un altro significato sotteso all’azione venatoria: esso è implicito nel rapporto che si instaura tra cacciatore e preda, ed ha un valore ancestrale e archetipico, segno dell’immersione dell’uomo nella natura: portando la morte all’animale l’essere umano ne assume le forze, le energie,la vita stessa: “Io, quando prendo una beccaccia, mi sento in comunione con la natura”. Evidentemente è un antico sogno primordiale: cacciando un animale ci si immagina di impossessarsi del suo spirito. E con lo spirito dell’animale, l’uomo conquista anche lo spirito del bosco: “Quando riesco ad ammazzare un urogallo, un animale che ha vissuto nel bosco, ritrovo in lui il bosco che amo, me ne impossesso”.
L’Urogallo
L’esempio dell’urogallo non è casuale: si tratta del gallo cedrone, che per Rigoni è la preda più ambita, il signore del bosco, l’animale selvatico che incute più rispetto . È un animale arcaico, mitico, che viene dai ghiacciai del Nord. Un animale-relitto, uno di quelli rimasti sull’Altopiano dopo l’ultima glaciazione. È ipersensibile e ombroso. L’urogallo diviene allora il simbolo vivente del bosco, poiché incarna la natura, la sua ciclicità e la sua forza: “sono animali emblematici, testimonianza di epoche remote e, quindi, circondati da un fascino tutto particolare”.
L’uccello assume così contorni mitici. La cattura di un urogallo è il momento di maggiore spannung vitalistica dell’azione venatoria, costituendosi come una sfida tra uomo e natura. Emblematico è, a riguardo, il racconto “Una lettera dall’Australia”, uno dei testi più belli e ricchi di Rigoni Stern. L’uccello ha pensieri umani: conosce il cacciatore, agisce con coscienza, è consapevole di quanto sta accadendo attorno a lui, decide di non abbandonare il suo regno.
La sua fine ha i contorni della morte eroica, accettata nella sua ‘patria’ alpina. La sfida abbraccia un’intera giornata e termina quasi al tramonto, con l’uccisione del gallo cedrone in volo su un precipizio. Ma la contesa non ha un vero vincitore: la preda giace senza vita in fondo al burrone, in un luogo impossibile da raggiungere, per cui il cacciatore non può che arrendersi al fatto che l’urogallo, alla fine, non sarà suo.
Il sentimento della pietas
L’epica della caccia racchiude in sé anche il sentimento della pietas :non si dà la morte solo per il gusto di uccidere, o per ribadire una sterile supremazia dell’uomo sulla natura. La preda merita silenziosa riverenza, perché essa ha una vita che supera se stessa: “…mi sentivo timido davanti alla fatalità di quella morte che avevo dato e chinandomi gli accarezzavo il collo e lo ringraziavo”. Il duplice atto dell’accarezzare e del ringraziare potrebbe risultare un omaggio allo spirito del bosco, che viene ferito da questa morte, la quale, tuttavia, nell’ottica rigoniana, ha i caratteri della necessità fatalistica, che non esclude comunque un’intima e sincera tiédeur.
La vista del gallo morente incute rispetto anche all’amico dell’io narrante: “Come una furia sbucò dal bosco il mio amico: – Potevi dire morto, almeno,- mi sgridò. Ma poi quando lo vide a terra si zittì improvvisamente e prima di raccoglierlo posò il fucile ad un albero. Lo prese per la testa e stendendo il braccio fece sì che la coda sfiorasse il terreno. L’urogallo sbattè un po’ le ali, stiracchiò le gambe e rimase immobile. L’avevo colpito in parti vitali. Lo mirammo e poi esclamò stupito: – È il nonno di tutti i boschi e delle montagne”.
La morte come parte integrante della vita
La morte è parte integrante della vita, anche quando essa viene procurata. La pietas è il sentimento che nasce da tale consapevolezza, poiché tutto ciò che esiste, uomo compreso, è avvolto dal mistero del ciclo naturale, la cui meta è comune ed è anticipata dallo spirare dell’urogallo: “Ora che era nostro, che erano finiti tensione e spasimo, ora ci sembrava che fosse morto anche qualcosa di noi. Non restava più niente né di noi né di lui di quello che eravamo prima: noi due, uomini qualsiasi e lui, una cosa morta qualsiasi. Ritornavano le montagne, le rocce, i massi, il bosco che poco prima non esistevano”.
La funzione liberatoria della caccia
Nel sistema dei valori che viene rappresentato, la caccia non ha attributi negativi, anzi. ad essa viene associata una funzione quasi liberatoria: “ Ma perché sparava agli urogalli? Alle coturnici? Ai francolini? Ai forcelli? Non lo sapeva nemmeno lui, ma era una necessità perché in quei momenti si sentiva più libero di ogni altro uomo. O meglio non che la sentisse questa libertà, ma accadeva che allora scompariva tutto: la fatica del lavoro, i bisogni di tutti i giorni, obblighi e impegni che comportano il vivere tra gli uomini e tutto il resto”.
La caccia, infine, nei racconti di Stern, assume un significato ancora più profondo: è un’occasione per sentirsi parte di qualcosa di più grande. In definitiva, il bosco degli urogalli risulta essere una narrazione estremamente evocativa e piacevole. Leggendo, possiamo quasi sentire lo scricchiolio di qualche ramo sotto ai piedi o il silenzio quasi sovrannaturale che avvolge le notti di luna nel bosco, quando cade la neve.
Il lessico
Stern utilizza un lessico fedele alla parlata e ai modi della gente di montagna, inserendo nei racconti, con una certa frequenza, termini dialettali che non stonano affatto con il resto della narrazione, anzi, riescono ad esprimere concetti o sensazioni altrimenti inesprimibili. I suoi racconti serbano il segreto di una terapia, della terapia usata da un sopravvissuto che utilizza la medicina della bellezza naturale non per dimenticare ma per superare gli orrori della guerra, per ritrovare l’amore per la vita. Con la grandezza che hanno i solitari, Mario Rigoni Stern ci mostra come il costante ascolto della natura, sia l’unico strumento dato in dono all’uomo per trasformare in canto il dolore della vita.
Autore: Rigoni Stern
Titolo: “Il bosco degli urogalli”
Editore: Einaudi
pagg.133
L’Autore
Mario Rigoni Stern è stato un militare e scrittore italiano. Il suo romanzo più noto è” Il sergente nella neve”, un’autobiografia della ritirata di Russia. E’ stato vincitore del premio Campiello del 1979 con il romanzo “La storia di Tonle” e sicuramente uno dei grandi scrittori del ‘900. Legatissimo alla sua terra, l’altopiano di Asiago, vi ha ambientato molti suoi romanzi tra cui “Il bosco degli urogalli”
Anna Maria Laurano
annamarialaurano@libero.it