La Medicina che vorrei
Ogni giorno la sveglia suona presto, mi alzo, preparo la colazione, faccio uscire il cane, saluto la mia famiglia, mi metto in macchina, arrivo a lavoro… indosso il camice e si comincia. Le ore passano velocemente. Non mi capita spesso di guardare l’orologio.
Le lancette scorrono ma io non mene accorgo: “dottoressa salve sono un nuovo paziente”, “dottoressa sto male”, “non so cosa stia accadendo”, “vorrei parlarle”, “mi da qualcosa?”, “mia figlia è preoccupata”, “vorrei un consiglio”, “può venire a casa a visitare mio padre?”.
I passi che si incrociano, le storie sempre nuove, i polsini del camice consunti, la borsa che fa fatica a chiudersi. Nomi che scorrono ogni giorno senza pausa, ognuno con qualcosa da raccontare. Portoni da attraversare. Intimità consegnate. Il privilegio di entrare nelle stanze private delle vite di ciascun paziente, le loro case.
E’ buio ormai, gli occhi bruciano un po’, lo stomaco brontola. E’ ora di tornare nella mia di casa. La sera odora sempre di più di vita vissuta.
Mi abbandono sotto la doccia, l’acqua scorre, il vapore sale, gli occhi sono chiusi. Il nastro dei mie pensieri si riavvolge: mille domande, tante ipotesi. Diagnosi riuscite, terapie efficaci, guarigioni, peggioramenti, qualcuno non ce l’ha fatta. Qualcuno ci sta provando ancora.
C’è da soffrire.
E poi mi ritrovo sempre li a chiedermi: qual è e soprattutto dov’è il senso di tutto questo star male che mi scorre tra le mani ogni giorno?
Mi sono messa a scavare fino infondo partendo dal corpo, attraversando i pensieri ed arrivando fino a quei 21 grammi di anima. Lì ho trovato qualcosa.
Quel famoso spirito, strumento utile per ritrovare il senso verso il quale il dolore ti spinge a cercare. Perché è inevitabile che, in chi ha a che fare con la malattia, nascano domande di senso che conducono a fare i conti con se stessi.
Te lo chiedi inesorabilmente che senso abbia tutto questo, anche se non credi in niente. Me lo chiedo dall’interno del mio camice bianco. Me lo chiedo soprattutto perché i malati lo cercano in me.
Ed è l’ambito spirituale questa ricerca di senso! A volte viene preso semplicemente per una sorta di antidolorifico, efficace per riprendere fiato. Perché si arriva a sniffare di tutto pur di sopravvivere. Il dolore , la tragedia tira fuori di noi cose inaspettate… non sempre il meglio.
Ed è proprio in questo scenario che il medico cura una persona con una malattia, con un dolore, con un bisogno, con una tragedia in atto. E mi si fa sempre più chiaro che l’efficacia delle cure non dipende solo dalla guarigione.
Il medico riveste un ruolo privilegiato poiché è in potenza di guidare il suo paziente, evitando che la propria reazione al dolore, al male, alla tragedia venga lasciata in balia del caso. Un modo per indirizzarla e per addestrarla è rispondere alle domande di senso che vengono a bussare dentro ognuno di noi e che in occasione della sofferenza si acuiscono fino a straripare, a farsi pedanti ed urgentemente bisognose di una risposta. Spesso quella risposta si traduce in una silenziosa presenza, la quale assume le sembianze di un atteggiamento, di uno stare. Lì.
Quale medicina può rispondere a tutto questo? A quale medicina voglio appartenere?
Alla medicina formata da professionisti che prima di tutto siano uomini. Uomo è chi non si accontenta di sopravvivere ma vive fino in fondo.
E meno male c’è anche la ragione che in questa prospettiva da una mano ad avere una visione di insieme, a non perdere mai di vista che davanti a noi abbiamo una vita che va guardata nella sua totalità.
Questo vuol dire non castrarla bensì contemplarne anche quella parte integrante rappresentata dalla morte! Senza censure, ma con verità.
La vita è per sua natura fatta di problemi, di lutti e di pesi che il più delle volte gravano su ciascuno senza che siano stati scelti. Accadono e basta. Un uomo che funziona è una persona che ha imparato la dignità di come viverli.
Cosi da uomini possiamo anche trovare le cure per tutto ma se ci dimentichiamo delle persone che compimento avranno??? Non esiste il medico se non esiste la persona bisognosa.
La medicina a cui vorrei appartenere è quella che ha il coraggio di raddrizzare il tiro e di ritornare ad una funzione di insieme, al nocciolo della situazione, al cuore, alla motivazione e che non cade nella banale tentazione di considerare solo i protocolli e le procedure camuffate da “le cose serie!”.
Guardo al lavoro dei miei colleghi e di quelli che ci hanno preceduto e mi accorgo che l’essere medico è indubbiamente nato e realizzato nel servizio dell’arte medica e non nella burocrazia delle sue carte.
Iperspecialisti, burocrati da manuale… siamo bravi a gestire qualunque cosa ma passa inosservato il prendersi cura, l’amore anche nei momenti peggiori. Lo stare.
Apro gli occhi, ormai il vapore della doccia ha annebbiato tutta la stanza. Mi batte forte il cuore. Sgocciolano le emozioni. Gli sguardi di tutti quelli che oggi mi hanno consegnato una parte di loro stessi.
Romanticismo a parte… sono sicura che la verità risiede chiara nell’espressione “gli occhi sono lo specchio dell’anima”, possiamo anche non credere all’anima ma agli occhi delle persone si.
E’ solo attraverso gli occhi che passa la parte più importante dell’ umanità dei malati, dell’umanità dei medici. Ed è proprio l’umanità di ogni professionista a reggere le sue competenza.
di Chiara Capponi – medico