La recensione de “La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino.
S.Valentino”, la festa degli innamorati, la festa della felicità…
Come riescono ad essere felici gli altri?
Distogliendo lo sguardo dal dolore… e la protagonista lo impara da piccola grazie ad un vecchio apprendimento, per lei ,però, non fu funzionale… così cambiò vita, cambiò nome, e diventò Anais.
“Anais” è il nome di chi anela il mare e non lo teme” e Anais cercò la felicità in un incontro d’ anime, mendicava affetto… “mi esercitavo nel continuo apprendistato della sua volontà per soddisfarne i desideri e addirittura prevenirli: tutto, facevo di tutto per non dover affrontare la spaventosa punizione dell’abbandono”… ma anche questo tentativo fallì così si impose il movimento, i viaggi. Viaggi intrapresi con furore iniziatico ma niente… neppure questo stratagemma funzionava.
“Mi sono addestrata alla fuga, non so fare altro…forse la felicità è solo degli altri, d’un altro tempo, d’un’altra vita e a noi non è possibile che recitarla come viene viene…”
Ma di quale felicità parliamo?
Quella di là da venire, la felicità degli altri, dato che a ben guardare, la vita della protagonista è percorsa da un profondo sentimento di tristezza da nascondere quanto più è possibile. Al cuore del sintomo un forte senso di solitudine, proprio nella società che erige altari al contatto e alla comunicazione, e intanto muore di frammentazione e di isolamento. La protagonista scoprì, comunque, anche, i social network che realizzavano “l’esse est percipi”: “finalmente percepita venivo riconosciuta, approvata. Lo sguardo dell’altro non era mai stato così benevolo: bastava un post per essere qualcosa”: in breve piacevo. “Va da sé che tale sguardo doveva esistere solo per questo, senza cercare di mettermi in discussione, era uno sguardo necessario al mantenimento della percezione, non poteva né doveva pretendere reciprocità.”
Ma bastò un niente per smontare anche questa fragile esistenza virtuale.
“La società della felicità ad ogni costo condanna quelli che non sono felici, e a questi non resta che camminare di lato; poi li maledice per il modo di camminare raso ai muri e per l’aria che inquinano con la loro tristezza, infine li combatte finché non si chiudono in casa, in un recinto che li tenga separati.” Così si abbandonò alla noia : “Almeno la noia è qualcosa di fisso” pensava, “ non una condizione che si trasformava di colpo in tutt’altro ( in paura, per esempio)”.
La sinossi
La vicenda comincia in medias res, a Venezia, dove Cloe, nuovo nome della protagonista, conosce un uomo particolarissimo e solitario, un’anima in pena, ombra di un’anima egli stesso, che nella storia compare col nome di “professor T.”Costui nella città lagunare tiene un corso interessante, “Estetica dell’ombra”. “Non la luce, Cloe. Caravaggio dipingeva l’ombra, il buio. Conosceva il luogo oscuro. Si sporcava le mani con la vita vera, quella che gli altri non vedono perché disturba”.
Il richiamo a Borges, “Elogio dell’ombra” è palese, e, forse anche al libro di Tanizaki, “Libro d’ombra” Il professore e Cloe sono due mendicanti dell’amore.
Si fa chiamare Cloe, ma il suo vero nome è Clotilde ed è una giovane donna che per guarire dai fantasmi del passato, deve scavare alle origini del suo dolore, un lavoro che la dilania, ma che è necessario “un’anastilosi”, un processo di ricostruzione e di restauro utilizzata per le rovine antiche.
Il lettore stesso è chiamato a partecipare al fianco di Cloe per raccogliere e mettere assieme i pezzi della storia di lei e, pagina dopo pagina, vengono forniti pezzi di storia, però solo verso la fine sarà più chiara la vicenda della protagonista.
I pezzi del mosaico non si presentano in ordine infatti l’autrice rimanda ad un’infanzia interrotta, negata, ad una famiglia funestata da incessanti liti furibonde, tra una madre nevrotica e un padre trasparente: una vicenda esistenziale condensata in un percorso a singhiozzi, quello della protagonista, del quale Carmen Pellegrino si affretta a dichiarare sin dalle prime pagine il senso, perché “ciò che resta in ombra si abitua a non essere guardato” .
Una solitudine gravida di ombre e affollata di voci, quella di Clotilde/Cloe, donna d’età indefinita abbandonata a dieci anni in una casa famiglia, con un aborto alle spalle e un matrimonio frantumatosi sul nascere, immersa in un presente lavorativo stimolante ma sostanzialmente bidimensionale, eternamente sulle tracce di sé stessa.
Ma, e qui la Pellegrino assesta la prima stoccata vincente, per carpire quella “certezza auto fermentativa” che sola sarebbe capace di fare rifiorire il deserto in lei, Cloe non si limita a ricercare coordinate che rimandino alla rassicurante certezza di presenze, luoghi, persone. Al contrario, l’attenzione si volge a fotografare un’assenza… un’ombra straordinariamente presente, investigata lungo pagine grondanti silenzio intrise fino all’inverosimile dell’angoscia di chi stringe tra le mani i cocci del proprio passato, di chi sa che ciò che residua ai propri passi rimarrà sepolto sotto cumuli di reticenze e che la felicità rimarrà sempre e soltanto appannaggio degli altri.
La felicità degli altri è un ponte tibetano gettato tra il ripiegamento intimista dei vinti e la tensione scopritrice di chi, nonostante tutto, non rinuncia all’ardire di (ri)scoprirsi vivo, di spiccare una capriola al rallentatore dei ricordi per svincolarsi dall’inania di un tempo sospeso nel quale è impossibile posare il capo.
Il Professor T
Affascinante la figura austera e ieratica del Professor T., un po’ padre putativo un po’ mentore, che, come si è detto, insegna estetica dell’ombra a Venezia. Nella sua introversa umanità, scevra da compiacimenti accademici, Cloe si riconosce e riconosce un’affinità elettiva dirompente, finendo per intrecciare con lui una corrispondenza che si distende a più riprese lungo l’intero arco narrativo, senza alcuna soluzione di continuità, fino all’epilogo inaspettato.
I dialoghi tra i due sono scorrevoli le citazioni argute del Professor T. instraderanno Cloe verso una meta di consapevolezza vasta al punto di accogliere la zona d’ombra che noi tutti ci portiamo dentro, come un grembo una vita nuova.“ La luce” di Caravaggio, “ la luce su cui noi ci soffermiamo per indicarne il genio, è un bianco che si afferma per contrasto: se non ci fosse ombra, non lo vedremmo”.
La chiave di lettura
Ecco spiegata allora la chiave di lettura del libro: gli altri cercano la felicità nella luce, evitando le ombre, cercano la felicità nella trasparenza della gioia, si stordiscono di luci abbaglianti per non vedere… ma chi insegna estetica dell’ombra conosce la bellezza delle ombre, conosce la loro complementarietà alla luce, sa che la realtà non è mai bianca o nera ma che si può cercare di comprendere solo inserendo nella comprensione anche l’ombra, il buio, il dolore, un dolore che Cloe non vuole metabolizzare ma attraversare. Vi riuscirà solo a patto di guardare in faccia i propri sensi di colpa, di dar loro il nome che hanno sempre avuto, in una dinamica evolutiva che scompaginerà certezze inizialmente incrollabili, con esiti sorprendenti.
Lo stile
Lo stile narrativo conferisce alla vicenda un’atmosfera da sogno nel quale si snoda man mano, evanescente come una solitudine, l’universo sofferto di un passato mai del tutto passato, che pian piano conquista mente e cuore del lettore nella misura in cui l’autrice insiste ad aggiungere tasselli su tasselli in forma di attraversamenti funambolici dello spazio e del tempo. In questo quadro, amorfo ripiegamento intimista, e tensione scopritrice, intrattengono una verace conversazione tutt’altro che scontata.
La prosa si dipana alternando tratti dichiaratamente involuti, intessuti di un’ampia distesa di riflessioni filosofiche mai banali (da Esiodo a Novalis, da Seneca a Borges, da Hölderlin a Mallarmé), ad altri di raffinato lirismo rievocativo, riuscendo nella mimesi allucinata dello stream of consciousness.
Sul piano lessicale spicca per singolarissima potenza la capacità di evocare universi semantici collaterali sottesi a parole dalla comune accezione, frutto raro di una pregevole capacità di selezione e sublimazione del processo di riconoscimento e di accoglienza che porta l’autrice ad imparare a non aver paura del buio, a non farsi ingannare dalle false lanterne… “perché non sempre il chiarore indica la strada… Abbiamo i sensi irritati dalla luce, accecati da fonti luminose che perseguitano nell’ombra. Rifuggiamo l’oscurità come se temessimo di venirne risucchiati. Formiamo delle ombre, diceva, i nostri corpi generano ombre che ci camminano a fianco, come buoni amici, amici di cui fidarsi. A volte ci precedono, scovando il fosso prima che ci finiamo dentro, perché le maltrattiamo? Nascondiamo la nostra debolezza, e rifuggiamo da quella degli altri per non esserne contagiati. Ma sono le nostre ombre ad esserne indebolite, per la fatica di proteggerci. Bisognerebbe averne riguardo, trattarle con gentilezza. Cercare il luogo oscuro dove riparano. Non giudicare”.
Autore: Carmen Pellegrino
Titolo: “La felicità degli altri”
Editore: La nave di Teseo
pagg.239
Prezzo 18 Euro
Carmen Pellegrino ha scritto saggi di storia e racconti. Il suo romanzo d’esordio, Cade la terra (Giunti 2015), ha vinto il Premio Rapallo Carige opera prima e il Premio Selezione Campiello. Tra le sue altre pubblicazioni si ricordano: “Se mi tornassi questa sera accanto” (Giunti 2017) e “La felicità degli altri”(La Nave di Teseo 2021). Vincitore Premio Letterario Internazionale “Latisana per il Nord-Est” Finalista Premio Campiello 2021 – Libro candidato da Alessandra Tedesco al Premio Strega 2021
di Anna Maria Laurano