Vincitore del Premio Campiello, Zannoni con il suo romanzo “I miei stupidi intenti” ha esordito al meglio. L’autore utilizza una chiave narrativa comune alla tradizione. L’antropomorfizzazione dell’animale che racconta non tanto una storia di etologia romanzata quanto una favola umana, alla Esopo. Zannoni preferisce un taglio drammatico, a tratti spietato e quasi catartico per “far parlare” gli animali. Sangue, violenza, ferocia sono normali componenti di una esistenza bestiale, che non prevede un’etica umana. Ma quando questa si insinua diventa dirompente. Gli abitanti del bosco sono confinati in una dimensione da cui solo la volpe Solomon prima,e il protagonista poi, riescono a emanciparsi. Sta al lettore domandarsi: “per guadagnare cosa?”
La trama de “I miei stupidi intendi”
Il protagonista: la faina Archy viene venduto dalla madre alla volpe Solomon che, ormai anziana, necessita di zampe giovani per aiutarlo nel lavoro. Solomon è temuto e rispettato e si fa aiutare nella riscossione dei debiti dal grosso mastino Gioele, suo fidato servitore. Un giorno Archy sente parlare di Dio, un essere misterioso che la volpe nomina quando si tratta di indagare il destino e la natura delle cose. Solomon è restio a condividere i suoi segreti ma alla fine svela alla giovane faina l’origine di quel nome: il libro che contiene la sua Parola. Solomon sa leggere e scrivere e lo insegna ad Archy che diventa il suo apprendista. Ascoltando e leggendo la Parola di Dio, del Dio dell’Antico Testamento,Archy prende coscienza della morte, del tempo, della crudeltà della giustizia divina. Non è più un semplice animale perché ha smesso di esistere solo nel presente. Sa quale sarà il suo ultimo destino, il suo “rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine”.
Condannato a tale coscienza, “ha mangiato dall’albero della conoscenza” egli comunque non aspira ad essere più che sé stesso. Si accontenta di essere prima allievo e poi maestro di questo sapere segreto. La breve vita della faina, scandita dalle stagioni, continua e attraversa le sue fasi naturali. Una vita portata avanti con il fardello della consapevolezza superiore, inflittale dall’aver voluto conoscere qualcosa che non le era destinata.
Una dura consapevolezza
“ La conoscenza è forse una condanna? L’ignoranza è forza?” Queste e altre le domande esistenziali, inevitabilmente topiche, che accompagnano le pagine del romanzo. La narrazione segue il flusso del tempo, senza anticipazioni o flashback, tranne le poche memorie del protagonista. Archy è diverso, sa che “questi pensieri fatti di ma e se” appartengono soltanto a lui. Confessa di non aver mai conosciuto “altri animali con questo fastidioso difetto. Ha a che fare con il Prima e il Dopo, e con Dio”.
Archy comunque non guadagna niente dalla parola di Dio; non si illude come Solomon di avere davanti a sé un destino di salvezza.
Alla faina-apprendista non resta che una cosa,l’unico lascito del padrone e maestro: la scrittura. Ed ecco la terza colonna portante della costruzione teorica e narrativa dell’autore, dopo la diade animale-umano, la riflessione sulla scrittura. “Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera. La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio”. L’immagine del sangue utilizzato per la scrittura è di forte e scontata portata metaforica e si accompagna con una visione pedagogica della letteratura. Ogni atto di scrittura, specialmente memoriale, è iscrizione di una verità destinata a durare nel tempo.
Riflessioni sparse
“I miei stupidi intenti” non è altro allora che una crudele favola sulla scoperta della parola, tanto umana quanto potente. Uno strumento in grado di riprodurre un’infinità di storie che guidano l’uomo nella ricerca di un senso. È la speranza di lasciare una traccia (anche il più stupido degli intenti) del proprio passaggio sul mondo prima di sparire per sempre. Giunto al termine del suo viaggio, il protagonista comprende infatti di essere destinato all’umana solitudine prima di abbandonarsi all’ignota morte. “Questo è il mio ultimo, stupido intento: scappare, come tutti, dall’inevitabile”.
Consigliato a chi è in grado di lasciar lievitare un romanzo, a chi è pronto a scoprire la cura del pensiero e non vede l’ora di riacciuffare il brivido della vita. Dedicato a chi cerca una consolazione dalla paura dell’ignoto. Scoprire la morte è un dolore tremendo, cosa c’è più umano di questo?