Riaprirà presto il Museo Diocesano, un vero scrigno di bellezza che, dopo la lunga chiusura dovuta al terremoto del Centro Italia e alla ristrutturazione avvenuta negli anni della pandemia, si mostrerà alla città arricchito sia di opere sia di sale espositive, che salgono da cinque a quattordici.
Veruska Cestarelli ha intervistato per radio Ascoli TV il neo direttore Marco Lattanzi, già conservatore della collezione delle carrozze del Quirinale.
Il museo verrà presto restituito alla città dopo il sisma. Quali lavori sono stati fatti?
Si sono succedute due grandi calamità una dopo l’altra: il grande sisma nel 2016 e poi la pandemia che ha impedito di mantenere aperto il museo. Nonostante tutto, però, l’amministrazione all’epoca è riuscita sia ad incrementare la collezione sia ad intervenire sulle strutture del palazzo, sanando i danni creati dal sisma e nello stesso tempo potendo aumentare gli spazi e l’entità della collezione, con nuove opere che vengono da particolari collezioni ascolane, come le collezioni ex seminario, Squintani e Leonardi – di vescovi precedenti – e con nuove opere di chiese colpite dal sisma e quindi ricoverate qui.
Nel 1961 si tenne l’inaugurazione del Museo Diocesano voluta dal vescovo Morgante. Oggi, alla sua riapertura, la collezione si arricchisce ulteriormente.
Sì, la collezione si è arricchita in modo considerevole. Vorrei sottolineare che nel 1961, grazie all’opera del vescovo Morgante, si era istituito uno dei primi musei diocesani in Italia e con regole molto all’avanguardia concettualmente rispetto all’epoca; già c’era in vigore, infatti, un regolamento. Questo museo, caratterizzato da una prospettiva di modernità già presente negli anni Sessanta, è arricchito oggi dai restauri strutturali e delle opere mobili che sono stati compiuti. Qui devo citare, con grande ammirazione, il professor Michele Picciolo che, negli anni duri segnati dal Covid, è stato uno dei promotori del rifacimento del museo e ha seguito tutto l’insieme dei lavori.
Carlo Crivelli, Pietro Alemanno, Cola D’Amatrice sono grandi esponenti che arricchiscono il Museo Diocesano di Ascoli. Alcune sale sono particolarmente identitarie. Quanto è forte il rapporto tra il museo e il suo territorio?
Il museo diocesano è rivolto alle comunità locali ed è un segno identitario di queste comunità. Infatti, raccoglie le opere solo per conservarle in situazioni di emergenza, ma è pronto a dialogare con le singole comunità, perché ci possono essere delle restituzioni o delle forme diverse di presenza degli oggetti nella comunità locale. Del resto, la conferenza di Praga dell’International Counsil of Museum dell’estate scorsa ha fissato questi canoni, che valgono ancora di più per le comunità locali ecclesiastiche e diocesane.
Quanto è importante per un museo diocesano stringere rapporti di collaborazione con le scuole e le università, e perché?
Questo è un luogo di bellezza e di cultura, ma allo stesso tempo un luogo dove si può affrontare un discorso pastorale. La storia della nostra città è attraversata dalla liturgia, dalla ricerca della fede, dall’iconografia. Questi potranno essere temi portanti per un discorso culturale con le scuole. L’apertura al pubblico ha nella didattica un momento centrale e fondativo.
Nel nostro territorio si sta parlando di rete museale marchigiana. Lei che ne pensa?
Ormai la museologia e la museografia contemporanea parlano di sistema museo; l’essere in rete con gli altri musei è estremamente importante. Si deve sottolineare, però, che questo è un museo diocesano e ha tutta una serie di caratteristiche che lo identificano. Questa identità non è un limite per il dialogo con gli altri musei, ma dev’essere un confine che delimita la caratteristica specifica grazie al quale può esserci un dialogo con l’esterno. Questo è il concetto che vorrei sottolineare ed è l’approccio che – anche secondo le indicazioni del nostro vescovo – vorremmo tentare con gli altri musei presenti sul territorio.
Entrare in un tale scrigno di bellezza non può che non fare bene all’anima, ma secondo studi dell’OMS visitare un museo provoca un benessere fisico anche in presenza di patologie come ad esempio la demenza senile. Possiamo parlare di arte come cura e strumento di prevenzione delle malattie mentali?
Questa è una delle tendenze di cui si sta più parlando nella contemporaneità ed è un territorio che ha ancora tante possibilità di sviluppo. Io penso che il luogo dove noi ci troviamo – come altri luoghi della cultura – possa essere d’ausilio anche a patologie complesse, proprio perché il luogo è connotato da manufatti che rimandano ad altro. Nella mia esperienza di storico dell’arte, gli oggetti mi hanno sempre affascinato perché sono sempre in relazione con un mondo fatto da tantissime storie, persone, situazioni. Penso che questo luogo dia impulsi positivi e che questa materia sia un territorio da praticare e da percorrere.
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