Considerando che si tratta di un film senza dialoghi già questa recensione appare superflua. Il Buco di Michelangelo Frammartino è un film che può solo essere visto. Impossibile raccontarlo perché le parole sono superflue se tutto quello che vuole è mostrare.
L’assenza della parola
Si tratta della spedizione, che un gruppo di speleologi del nord Italia fanno nel 1961, alla volta dell’inesplorato Abisso di Bifurto, un grotta profonda 683 metri nel parco nazionale del Pollino, in Calabria. Il film, come detto, è interamente senza dialoghi. Quelli che sentiamo -pochissimi, tra l’altro- non sono ripresi a favore di camera ma fanno parte di quel grande flusso sonoro, indistinto, che pervade il film. L’unica cosa che si sente sono i rumori ambientali. Una decisione registica che non è priva di conseguenze: eliminando quasi completamente la parola, il segno, siamo costretti a focalizzare la nostra attenzione altrove. Con il sonoro quasi del tutto annullato la dimensione visiva viene potenziata. Siamo costretti a guardare le immagini con un’attenzione maggiore rispetto al solito. Abbiamo solo loro: unico aspetto familiare tra suoni di un parco selvaggio e incontaminato.
Cosa si vede dal Buco?
In 95 minuti di film assistiamo al tentativo di misurare le dimensioni della grotta da parte di un gruppo di giovani speleologi. Una visione spettacolare perché la macchina da presa riprende angolazioni, visioni, oggetti preclusi nella vita di tutti i giorni. La pellicola è una sfida a ciò che l’obbiettivo può riprendere. Una sfida nel far prevalere la luce nel buio del buco sotterraneo. Una sfida della determinazione umana nello scavare sempre più in profondità alla ricerca dell’obbiettivo finale. Non c’è azione ne suspance. C’è la missione esplorativa di un gruppo di ragazzi che evocano visivamente migliaia di miti e riflessioni filosofiche all’interno delle profondità della terra. Se da una parte abbiamo il tentativo di fare luce su qualcosa di inesplorato, dall’altra abbiamo un’altra storia da mostrare. Mentre gli studiosi lavorano, dall’altra parte, un uomo muore. Un pastore che da sempre abitava quelle valli vede svanire la scintilla nei suoi occhi in quelle vaste terre che anni addietro gli hanno dato la luce.
Considerazioni in sala
Le immagini, potenziate dalla mancanza della parola, hanno una forza sensazionale. Non si limitano ad alimentare la nostra mente ma creano ambienti, cosi tangibili da poterli vivere grazie alla stimolazione degli altri sensi L’obbiettivo non si ferma mai, ha una mobilità unica. Si passa dai campi lunghissimi e alle riprese dell’altro, che riducono l’uomo ad abitante insignificante della terra, agli intensi dettagli umani che ridanno valore alla figura umana come anche esso elemento naturale che convive con l’ambiente in modi diversi. Una vena che pulsa o una goccia di sudore che scende dalla fronte sono i segni di chi vuole riflettere sull’uomo come elemento vitale ricolmo di emozioni da osservare.
Un film non convenzionale, consigliato a chi predilige osservare piuttosto che divorare una storia. Da non perdere per chi è ama la natura e come l’uomo si rapporta con essa. Una vicenda ordinaria ma mostrata in modo così curato da sembrare l’azione di quei ragazzi come un’impresa epica.
Voto 7.5/10
di Quinto De Angelis