In occasione della retrospettiva a lui dedicata, realizzata dal Cinecircolo Don Mauro-Nel corso del tempo, abbiamo avuto l’occasione d’intervistare il regista e scrittore Daniele Vicari. Il cineasta è riuscito a toglierci qualche curiosità sul suo cinema facendo riferimento anche al suo ultimo lavoro: il film Orlando.
Ti piace Ascoli come città? Si tratta della prima volta che vieni qui?
Questa è la seconda volta che vengo ad Ascoli, ci sono stato per caso con un mio amico qualche anno fa. Durante la mattinata, girando per le “rue” del centro mi sono ritrovato, oggi come ieri, in quella sensazione fortissima di bellezza struggente. Le piazze e la struttura cittadina danno l’idea di un luogo dal forte valore culturale e di una grande sensazione di vivibilità non scontata ai giorni nostri.
Questa città è completamente diversa dalla Bruxelles vista nel film Orlando. Perché hai deciso di ambientare li la vicenda?
Io dovevo raccontare la storia di un contadino della provincia di Rieti, che non ha mai voluto viaggiare nella sua vita, ed è costretto a spostarsi per soccorrere suo figlio malato che 20 anni fa decise di emigrare in Belgio rompendo i rapporti con il padre. Questo contadino ha vissuto solo nella sua campagna. Scende dal treno e vede Bruxelles, una città di vetro, post moderna, per lui astratta. Orlando deve prendere le misure e adattarsi. In Orlando ho messo la caratteristica tipica degli uomini delle scorse generazioni di saper vivere in ogni situazione. Negli scorsi decenni abbiamo visto uomini italiani emigrati far fronte e guerre, miseria e carestie mantenendo intatta la propria dignità. Questa forza, che ho sempre riscontrato negli uomini della mia infanzia, ho voluto inserirla in Orlando. Quando Orlando arriva nei palazzi di vetro noi dobbiamo vivere il suo spaesamento e la sua capacità di venirne a capo. Le riprese dal basso aumentano il senso di spaesamento ma donano al film un look contemporaneo riprendendo i metodi di ripresa della nostra generazione.
Signor Daniele Vicari, dove nasce l’ispirazione per fare un film del genere?
Nel 2014, in Puglia, a Presicce, dove un signore di circa 70 anni mi raccontò che era stato per 47 emigrato in Svizzera. Da questo racconto mi resi conto che io ero il primo in 3 generazione della mia famiglia a non dover emigrare ma allo stesso tempo sapevo che la mia è una generazione di emigranti. Secondo l’Istat dai primi anni 2000 sono andati via dall’Italia più di 2 milioni di persone. Questo mutamento nella nostra società non è troppo evidente perché il livello di benessere raggiunto dalla quasi totalità della popolazione italiana ci porta a pensare all’Emigrazione come una scelta. Invece cosi non è. Una parte importante di queste persone lasciano l’Italia perché qui non trovano lavoro. Questo mi ha portato a scrivere la storia di un contadino, estremamente legato alla terra in cui vive, che rotto i rapporti con il figlio perché questo, 20 anni fa ha deciso di emigrare all’estero per non fare la fine dei suoi genitori.
Sulla locandina del tuo ultimo film «Orlando» è scritto che si tratta di una “favola moderna”? Come mai definisci così il tuo film?
L’obbiettivo mio e del mio ufficio stampa era quello di utilizzare il termine favole intendendolo come un racconto sentimentale. Cioè la storia di una nipote -di Orlando-, rimasta sola in un paese del Nord Europa, che a un certo punto conosce il nonno che prima di allora non sapeva di avere. Tra loro due, agli antipodi come caratteri, nasce un rapporto di affetto non scontato.
Nel film vediamo Lyse, interpretata da una splendida Angelica Kazankova, che rappresenta in modo molto realistico il temperamento tipico della Gen Z. Come sei riuscito a scrivere un personaggio così complesso senza cadere nei soliti stereotipi generazionali?
Io lavoro dai ragazzi da sempre. Insegno cinema in tutte le scuole di ogni ordine e grado. (Daniele Vicari gestisce a Roma la scuola di Cinema dedicata a Gian Maria Volontè).Poi sono padre di una ragazza di 20 anni. Il mio sceneggiatore ha dei figli piccoli perciò frequenta tutto un mondo di genitori di figli di 6/7 anni; perciò ci siamo confrontati con le nostre comuni esperienze. Abbiamo realizzato un lavoro che si è basato sugli atteggiamenti di ragazzi e ragazze che noi realmente conosciamo. Da questo incontro è nata Lyse. Una ragazza forte che non può fare sconti a nessuno perché lei non hai mai ricevuto sconti dalla vita stessa. La sua figura tenace rimodula le convinzioni di Orlando come ogni ragazzo della Generazione Z ci fa rivalutare il nostro modo di apportarci alla vita.
Nella tua carriera hai realizzato diversi film “impegnati”.Come collochi questo tuo film all’interno della tua filmografia? Hai un progetto da seguire, una tua poetica?
Sinceramente io cerco storie che mi convincono in base alla mia visione del mondo. Per cui se c’è un elemento ricorrente nelle storie che offro è la ricerca di facce diverse della realtà in cui viviamo. Ricorrenti sono alcune tematiche però io, in ogni film, cerco di abbandonarmi alla vicenda che racconto in modo tale che lo stile del racconto specifico, di quello specifico film, derivi da quel contenuto, da quel contesto o da quel personaggio. Questo mio modo di fare mi permette di sperimentare nuove tecniche e nuove modalità di visione. L’importante che questi cambiamenti, innovazioni stilistiche e tecnologiche siano funzionali a quello che viene mostrato.
Lo scorso anno hai Pubblicato il saggio “Cinema, l’immortale”. Come consideri il cinema moderno e per te è ancora in grado di trasformarsi con l’evolversi delle tecnologie e della società?
Il cinema ci circonda e ci circonda con i film. Durante la pandemia, alcuni istituti di ricerca, hanno rilevato come il prodotto televisivi più visto è stato il film. Leggendo queste informazioni mi sono chiesto: “Come mai?”. Mi sono dato delle risposte provvisorie. Una di queste è un paradosso tipico del cinema attuale. La serialità propone un’incompletezza dell’esperienza castrante e frustrante. Infatti tu rimani appeso alla serie perché quest’ultima sposta in continuazione l’interesse che il pubblico ha verso il racconto. Quindi tu diventi prigioniero del racconto seriale. La struttura narrativa del film prevede lo scioglimento: quello che gli antichi definivano terzo atto o epilogo. Quello scioglimento ti riconcilia con te stesso perché tu non hai perso tempo. Tu hai potuto fare un ‘esperienza completa. Hai potuto fare una riflessione che riverbera su di te in maniera non provvisoria.
Per me questa caratteristica del film è un’abilità difficilmente distruttibile. La durata di un film è un canone. Un racconto di 2/3 ore; con un inizio, uno scioglimento e una fine; che racconta la storia di uno o più personaggi e che porta a compimento la narrazione. Questa suo modo di fare e la capacità di diffondersi in tutti su tanti schermi conferma la forza del film. Esso può sopravvivere senza sala cinematografica: puoi vederlo sul cellulare, in treno, dove vuoi tu. La sala non può esistere senza il film proiettato.
Cosa fa Daniele Vicari quando non fa il regista o lo scrittore?
Sono molto legato all’ambiente e amo tantissimo stare in mezzo alla natura. Spesso faccio delle escursioni molto lunghe. Rimango anche un mese in mezzo alla natura. Andare a fare le escursioni a 3000/4000 metri di altezza mi fa ritornare alla vita. Mi restituisce le energie perse. Mi piacerebbe fare in futuro qualcosa che può unire cinema e natura. Qualcosa per sottolineare l’importanza del cinema e della natura allo stesso tempo.
Qui il link al podcast dell’intervista
di Quinto De Angelis